Floriano De Santi:     I modelli segreti di Maineri

Con una forma che porta ancora l’orma tenera del ventre, lo scavo ombroso dell’ascella, ma sottratti a ogni possibile corruzione o invecchiamento, la sintesi plastica di Angelo Maineri ama farci pensare alla realtà da cui si è staccata per porsi come aletheia, come luce che mostrando nasconde, come ciò che disvela e allo stesso tempo mantiene insondabile.   E’ una sinossi anche corposa e, quasi direi, sensuale: i profili delle sue donne stelo hanno qualche cosa di eccitante e di inquieto, e non si sa se sia il corpo muliebre che si espande in un fiore metamorfico, o il fiore che si rassoda in un corpo senza pudori.

In opere quali Anteros del ’98 e Calipso dell’anno seguente ci sono i sintomi e le tracce di un turbamento dell’anima, che sembrano avere una lunga eco dentro la riflessione heideggeriana intorno alla Streit generativa dell’opera d’arte. C’è il rifiuto intenzionato della   fluidità e della continuità dei volumi, che si dilatano, s’inturgidiscono, si comprimono e si aprono come valve di conchiglia, incuriosi   di ogni esito armonico, di ogni flessione coordinata, dissonanti e – si vorrebbe dire – imprendibili. Siamo davanti, insomma, a sculture che conseguono uno stato emotivo a   un esercizio quasi materico, che si potrebbe definire romantico e barocco.

Sennonché, sin dall’inizio si avverte nell’indagine figurativa di Maineri un desiderio incessante, perché volgendosi soprattutto alla concretezza sensibile dell’argilla, che è potenzialmente fragile, sempre poi la sopravanza per contemplare pensosamente un eidos intellegibile che di quella materia è, almeno in apparenza, completa negazione. Diciamo in apparenza perché se l’artista varesino assume lo stilema classico quale suo “segreto modello”, ciò non avviene per uno slancio metafisico verso la trascendenza, verso l’iperuranica e separata fissità delle idee, ma per un’intuizione   fenomenologia, verticale e immanente, che coglie l’eidos non come “norma” ma come “equilibrio”, costantemente ricercato nell’esperienza creativa.

Riprendendo il pensiero filosofico di Merleau-Ponty, Maineri in Lunapiena del ’96 e in Aurea   del ’97 sembra ribaltare la celebre distinzione platonica di Fedone, che dice l’invisibile immutabile e il visibile   « mai identico a se stesso ». Senza affanno, senza assillo, in un continuum meditativo, egli matura le sue idee-progetto, le trasferisce   sulla carta, testimone della labilità del quotidiano, verificandole in numerosi schizzi, studiando e provando ogni possibilità intrinseca alla forma. Successivamente passa alla creta della terracotta che   - come abbiamo   detto – è la materia preferita proprio per la sua non definitività, per la sua originaria fluidità, che s’imbeve di luce e non la riflette, che s’intride di ombre chiare e smorzate, esprimendo il limite, la soglia ultima, dove il pensiero incontra l’aisthesis, ossia la sensazione più profonda. 

Di fronte a La caduta di Fetonte e Pyros,  due bronzi rispettivamente del ’90 e del ’98, ci ha subito colpito il rapporto di Maineri con il mito. Ma mentre per altri scultori come Mitoraj e Perez il mythos è un discorso originario in sé compito, nella scultura maineriana esso si presenta come luogo di tensione e di scissione. Questo già nel suo rapporto con l’amata civiltà etrusca, vale a dire con l’arte e la cultura che più di   ogni altra ha mescolato l’inconciliabile della vita e della morte, di Ghenos e di Thanatos, confermando un detto di Eraclito che aveva appunto affermato che l’uomo è tale in quanto « vivente porta dentro di sé la propria morte ».   L’immagine di   Erma è l’archetipo, è l’eccesso della vita che mentre espone la sua nudità al mondo, al tempo stesso mostra la labilità dei suoi contorni, l’infinita malinconia che la abita. Quest’opera diventa,   nella produzione   matura di Maineri, simbolo doppio dell’umanità attuale: duplice com’è la luce crepuscolare, che tiene dentro di sé l’oscurità della notte e la luce del giorno.

 Brescia, febbraio 2002